Srebrenica è una ferita profonda che taglia tutta l’Europa. Dal Regno Unito passando per i Paesi Bassi, il Belgio, la Germania, la Francia, l’Italia, arriva fino ai Balcani occidentali e per dirla tutta, va fino alla Russia e attraversa l’oceano, toccando anche gli Stati Uniti.
Forse vi chiedete perché. In pochi sanno di quanto sia stato profondo il coinvolgimento dei paesi occidentali (e anche dell’Unione Sovietica) in ciò che è successo nella guerra di dissoluzione della Jugoslavia, di cui il massacro di Srebrenica rappresenta il culmine più sanguinoso e sconvolgente.
Non è questo forse lo spazio adatto a ripercorrere la storia della penisola balcanica per capire come siamo arrivati alla guerra in Bosnia e a Srebrenica nel 1995 ma basterà tener presente che questa zona, e la Bosnia in particolare, è sempre stata soggetta fin dall’età antica a conquiste, imperi, smembramenti e influenze di ogni tipo: l’Impero Romano d’oriente, la lunga dominazione ottomana e l’Impero Asburgico sono solo alcuni noti esempi.
Correndo veloce nel tempo per avvicinarci alla guerra scoppiata nel 1992, possiamo dire che già dai primi del ‘900 la situazione sulla penisola balcanica era la seguente: la Slovenia e la Croazia erano territori prevalentemente cattolici (erano rimasti più vicini e fedeli anche al dominio Asburgico del XIX secolo infatti), la zona della Serbia e del Montenegro invece aveva mantenuto le sue radici ortodosse arrivate nel VII secolo e radicalizzatesi dopo il grande scisma tra la chiesa cattolica e quella ortodossa del 1054. La zona che territorialmente coincide all’incirca con l’odierna Bosnia-Erzegovina ospitava una popolazione a prevalenza musulmana. Tuttavia, questa rimane un’estrema semplificazione: sebbene minoranze esistessero e resistessero anche in Croazia e Serbia, è sempre stato storicamente il territorio bosniaco quello con la maggior varietà etnica e religiosa. Si può infatti dire che esistessero in Bosnia (ed esistono tuttora) tre principali gruppi: i bosniaci musulmani (chiamati solitamente “Bosgnacchi”), i serbo-bosniaci (ortodossi) e una minoranza di croato-bosniaci di religione cattolica.
Un’altra cosa che è bene tenere a mente è che questa multiculturalità è stata vissuta qui storicamente più come un vantaggio che uno svantaggio, regalando a questa terra un fascino unico e denso di tradizione, facendone un esempio di ricchezza etno-culturale che ha pochi eguali al mondo (questo non significa certo che siano mancate le guerre nei secoli, più spesso però fomentate dall’esterno che dall’interno).
Bene, la Jugoslavia di Tito, che va dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1980, riesce a rafforzare questo spirito di “united in diversity” che però si sfalda alla morte del Maresciallo. Perché? Prima di tutto le tendenze nazionaliste serbe (appoggiate apertamente dalla chiesa ortodossa serba) non si erano mai sopite. La narrativa cetnica della “Grande Serbia”, stanca dei soprusi degli invasori cattolici (dagli Asburgo agli Ustascia fascisti) e musulmani si infuoca e trova in Slobodan Milošević il perfetto leader. Dall’esterno poi, questa tendenza viene talvolta non presa sul serio e talvolta addirittura incoraggiata (soprattutto dall’Unione Sovietica ma anche da diversi governi europei, che non ne comprendono forse appieno la violenza e la pericolosità).
Per tagliare corto, i serbi nazionalisti approfittano del momento di scompenso locale e globale dei primi anni ’90 per dare concretezza al loro progetto: dopo la breve ma intensa guerra in Croazia, che permette ai serbi di recuperare alcuni territori in questa zona, si passa all’attacco della Bosnia, dove la comunità serba è decisamente più numerosa. Dal ’92 si scatena una guerra fratricida tra le più orribili della storia. I metodi militari (e paramilitari) dei serbi guidati da Mladić e Karadžić sono ricordati per essere tra i più violenti e scellerati della storia. La macabra peculiarità di questa guerra è legata alla spaventosa propaganda che scatenò l’odio e la violenza tra famiglie, vicini, parenti di diversa etnia o religione che fino a poco prima vivevano in armonia. Lo stupro come arma di guerra diventò prassi. Le umiliazioni che i serbi perpetrarono verso i musulmani risultano spesso inenarrabili. A tutto ciò assistono quasi impassibili l’Europa e le Nazioni Unite (che per altro avevano bloccato con un embargo il rifornimento di armi in Bosnia, lasciando i musulmani bosniaci praticamente a combattere con le falci e i coltelli). Le stesse forze occidentali rimangono impassibili anche l’11 luglio 1995 quando l’esercito serbo guidato da Ratko Mladić entra a Srebrenica, che era stata dichiarata “safe area” dall’ONU e che invece non fu protetta da nessuno. Solo 5000 persone ottennero rifugio nella base ONU di Potočari (“protetta” da un contingente olandese), il resto fu lasciato in pasto ai serbi che si accanirono prima su tutti gli uomini – alcuni furono presi subito, altri cacciati nei boschi e nelle montagne – e poi sulle donne, a cui spesso fu risparmiata la morte ma non le più fantasiose violenze sessuali.
Anni dopo, testimoni e prove raccolte dal tribunale dell’Aia (creato appositamente per indagare sui crimini commessi durante le guerre nella ex Jugoslavia) descrivono scene di inimmaginabile ferocia: migliaia di uomini giustiziati e sepolti in fosse comuni, altri addirittura sepolti vivi, bambini uccisi davanti alle loro madri, un nonno costretto a mangiare il fegato di suo nipote. Tutto ciò sotto gli occhi indifferenti del contingente olandese, in primis, e di tutto l’occidente che nei mesi precedenti aveva avuto un assaggio in tv delle atrocità di cui l’esercito serbo era capace.
Quest’anno ricorrono i 25 anni da quel massacro (e ricordiamoci che è stato solo il più grave di quasi 3 anni di guerra). Si stima che siano state 8372 le persone – prevalentemente uomini musulmani – uccise, ma mancano ancora circa 1000 cadaveri all’appello. 9 sono stati identificati e tumulati negli ultimi mesi, grazie a un lavoro straordinario guidato dal Bosnian Missing Persons Institute, che stima che il totale dei morti non ritrovati o identificati durante la guerra in tutta la Bosnia sia di oltre 17.000.
Ad oggi solo alcuni responsabili hanno pagato per le loro colpe “individuali”. Il genocidio è stato riconosciuto ma solo come evento circoscritto a Srebrenica e il governo serbo non è mai stato messo sul banco degli imputati. La cosa più grave però è la persistenza e recentemente il rafforzamento di movimenti negazionisti e revisionisti particolarmente radicati nella Repubblica Srpska, la regione serba della Bosnia-Erzegovina (che occupa quasi la metà dell’intero territorio) donata ai serbi con gli accordi internazionali di Dayton che conclusero la guerra di Bosnia nel ’95.
Per questo e per molte altre ragioni, la ferita di Srebrenica attraversa ancora oggi tutta l’Europa, corre su una coscienza internazionale intorpidita e brucia ancora sul popolo bosniaco.
Per approfondimenti sulla storia della Bosnia e della guerra di dissoluzione della Jugoslavia consiglio:
– Il documentario BBC disponibile su Youtube “The Death of Yugoslavia”
– Il film “Sarajevo mon amour” di Jovan Divjak
– Il libro “Maschere per un massacro” di Paolo Rumiz
– Il libro “Capire la Bosnia ed Erzegovina – Alba e tramonto del secolo breve” di Cathie Carmichael